Disturbo posttraumatico da stress

Secondo il DSM-IV (1994), un avvenimento provoca un trauma a chi ne è coinvolto quando implica una grave minaccia per la sua vita o una gravissima lesione della sua integrità psicofisica. Le conseguenze di ciò vengono definite con il nome di «disturbo posttraumatico da stress» (Dpts). La psichiatria si è sempre confrontata con il problema del rapporto tra eventi disgraziati e alterazioni psicologiche conseguenti, interpretandolo in funzione del momento culturale e delle consuetudini scientifiche correnti ma, non diversamente da altri quadri morbosi psichiatrici per i quali c'è ragione di chiedersi se siano stati scoperti o inventati, il Dpts è stato così chiamato, e dunque esiste come malattia, da pochi decenni anche se le esperienze esistenziali cui si riferisce sono certamente conosciute, sotto altro nome e altre definizioni, fin dall'antichità. Già la letteratura ha fornito descrizioni dei disturbi psicologici significativi che seguono esperienze drammatiche. Ma è solo con l'industrializzazione, e in particolare con l'introduzione dei mezzi di trasporto di massa come la ferrovia, che gravi incidenti suggeriscono ai medici le prime osservazioni cliniche sistematiche (sindrome spinale da ferrovia di Ericksen, nevrosi posttraumatica di Oppenheim), estese poi alle situazioni di cui i medici fanno esperienza diffusa nelle prime guerre moderne della fine dell'800 (nevrosi traumatica di Myers e cuore irritabile del soldato di Da Costa) e in coincidenza con le due guerre mondiali del '900, per diventare una specializzazione psichiatrica (nevrosi da guerra di Simmel) dopo la guerra nel Vietnam. Verrà valorizzato, in particolare, il ruolo avuto dalle reazioni psicopatologiche agli stress estremi nel corso dei due conflitti mondiali perché hanno costituito una sorta di laboratorio psichiatrico nel quale gli psichiatri hanno sperimentato modelli di intervento e di attenzione terapeutica che nei periodi tra le due guerre hanno costituito le premesse per l'innovazione dei trattamenti, per la sperimentazione su vasta scala delle tecniche psicoterapiche, soprattutto di gruppo, e per l'approccio olistico, psicologico, fisico e relazionale, ai problemi clinici, aprendo la strada all'affermazione definitiva della psichiatria di comunità. Più recentemente è stata posta attenzione su, e sono state considerate causa di questo disturbo, innumerevoli altre categorie di traumi, dagli incidenti stradali ai traumi sessuali, alle molestie sul lavoro, all'assistere a incidenti di persone care, al ricevere notizia di una malattia mortale. Non ci sono dati del tutto sicuri sulla frequenza di tale disturbo nella popolazione generale, ma si stima che essa vari dallo 0,5 al 3%, mentre in gruppi particolarmente a rischio, come le vittime di aggressioni o violenze di vario tipo, vittime di ustioni, operatori psichiatrici, detenuti, senzatetto, soccorritori e altri tipi di traumi, la frequenza varia moltissimo: mai inferiore al 25%, può arrivare anche al 70%. La probabilità con cui si può essere vittime di qualche tipo di aggressione varia anche in funzione del contesto culturale e sociale: ad esempio, negli Stati Uniti, 690 persone su 1000 avevano subito un trauma nell'anno in corso e 210 l'anno precedente l'intervista. Molte sono poi le evidenze della sensibilità particolare e del rischio dei bambini e degli adolescenti sottoposti a condizioni traumatiche di vario tipo, soprattutto di durata protratta. Complice la dimensione planetaria del coinvolgimento mediatico in eventi straordinari come i fenomeni terroristici o le catastrofi naturali, si è sviluppata una letteratura sui disastri che l'Organizzazione mondiale della sanità identifica con gli eventi traumatici, di natura ecologica e/o psicosociale di tale gravità che le normali capacità di adattamento non riescono a farvi fronte (Oms/Who, 1992), da cui è nata un'epidemiologia che ha prodotto una distinzione in cinque gruppi di eventi: dai disastri naturali improvvisi come terremoti, maremoti, eruzioni, a quelli naturali a lungo termine come epidemie e carestie, da quelli prodotti dall'uomo improvvisi (esplosioni, incidenti nucleari, incendi) o a lungo termine (guerre, diaspore, immigrazioni), fino al disastro personale, ovvero all'evento traumatico coinvolgente un singolo o un piccolo gruppo.

Si è così saputo che, in poco più di vent'anni (1967-91), oltre tre miliardi di persone sono stati interessati da uno o più eventi traumatici. E interessante notare come quasi la metà di questi eventi catastrofici abbia avuto luogo in Asia, e che la frequenza di questi accadimenti sia di 166 a 1, tra paesi sottosviluppati e paesi sviluppati, dato che suggerisce l'importanza dei fattori culturali e ambientali nella prevenzione e nella modulazione della risposta psicosociale alle tragedie collettive.

Sono in ogni caso i conflitti bellici - responsabili insieme alla siccità di oltre il 60% delle morti provocate nello stesso periodo -a suscitare maggiore interesse epidemiologico, anche per i modi con cui si sono trasformati nel secolo scorso: nel '900 i civili morti sono passati dal 5% (Prima guerra mondiale) al 90% (guerra del Libano). I dati disponibili riportano un rapporto di 1 a 12 di Dpts a carico di chi ha partecipato a combattimenti, una prevalenza nei prigionieri di guerra che oscilla dal 50 al 70%, e poco meno (dal 20 al 40%) tra le vittime di attacchi terroristici nei profughi e negli sfollati. Se l'importanza degli eventi drammatici per l'equilibrio psicologico dell'uomo è riconosciuta fin dall'antichità, l'interpretazione di come si sviluppano i disturbi, e del ruolo specifico degli eventi esterni nell'evoluzione delle patologie, è piuttosto diversa nei vari autori, variando generalmente il peso relativo della predisposizione e del vissuto personale rispetto alla gravità e alla drammaticità dell'evento in quanto tale. Si passa così dalla concezione di J. Esquirol alle reazioni psicogene di E. Bleuler, alle reazioni patologiche agli avvenimenti di K. Jaspers, alle reazioni abnormi di K. Schneider, mentre in America negli stessi anni si affermava il concetto di reazione psicobiologica di A. Meyer, secondo cui lo sviluppo psicopatologico del soggetto è sovrapponibile alla storia delle sue reazioni alle esperienze che gli è capitato di vivere, che plasmerebbe i modi e l'intensità dei sintomi nelle successive condizioni di scompenso. L'impostazione che attribuisce a stimoli esterni il ruolo di causa efficiente nell'eziopatogenesi dei disturbi resterà dominante negli Stati Uniti fino agli anni '70, associandosi alla psicoanalisi nell'assunto che l'intervento sulle condizioni ambientali nell'infanzia e nell'adolescenza è la via maestra per la prevenzione e la cura dei disturbi psichiatrici. In questo senso, l'importanza del trauma come agente patogeno diventa un truismo: il Dpts sarebbe solo una risposta più specifica ma rifletterebbe la comune reazione psicopatologica agli stimoli ambientali. Solo con il DSM-III (1980) sarà modificato, sostanzialmente, l'approccio all'analisi degli avvenimenti nei quali il soggetto è coinvolto, nel tentativo di oggettivare, misurandola, la gravità dell'insulto esterno, a prescindere dal vissuto personale e dal significato biografico che questo viene ad assumere. Non a caso il Dpts è l'unico disturbo del manuale a essere caratterizzato dall'eziologia piuttosto che dalla sintomatologia. Questo tema aveva avuto una grande importanza già nelle concezioni psicodinamiche della fine dell'800: nella prima elaborazione teorica di S. Freud, ad esempio, il trauma infantile riveste il ruolo essenziale di attivatore della rimozione inconscia del ricordo traumatico e costituisce il motore dell'espressione, in forma simbolica, del sintomo. Non casualmente la necessità di riconoscere che molti dei ricordi traumatici infantili erano dei falsi storici, e corrispondevano a fantasie piuttosto che a eventi reali, ha avuto un ruolo decisivo nella successiva rielaborazione teorica psicoanalitica. P. Janet è stato il primo a sostenere, sulla scia anche degli studi di J.-M. Charcot, che uno stato dissociativo della coscienza deve essere considerato una delle principali risposte dell'organismo a un trauma la cui intensità sia tale da non poter essere organizzata emozionalmente dal soggetto. Infine, la dialettica tra l'importanza relativa della predisposizione individuale a sviluppare disturbi psicopatologici, e il significato oggettivo delle esperienze di vita dannose, deve anche essere calata nel contesto delle dinamiche forensi, per il significato risarcitorio che ha la definizione di un danno che possa essere attribuito fondatamente a

responsabilità oggettive. A ciò va correlato sia il dato storico che la sindrome nasce insieme alla scoperta dell'assicurazione contro gli incidenti ferroviari, sia l'osservazione comune che i risvolti medico-legali svolgono un ruolo negativo sulla prognosi e sulla cronicizzazione del Dpts. La sintomatologia del Dpts, il cui nucleo essenziale è il vissuto di un'incontenibile paura associata a una sensazione di totale impotenza, si esprime con un esasperato e incessante rivissuto dell'esperienza o delle esperienze traumatiche che vengono rievocate in modo irresistibile e compulsivo fino a veri e propri flashback, come se l'evento o gli eventi fossero continuamente presenti e attuali. Questo porta la vittima a cercare di evitare pensieri, ricordi e situazioni anche lontanamente legati al trauma, limitando così grandemente le proprie possibilità di esistenza. Possono insorgere difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno, a concentrarsi su un compito, reazioni esagerate di allarme o di paura, scoppi di rabbia eccessivi o inopportuni. A causa dell'intensità dei sentimenti associati all'avvenimento traumatico, la sua percezione da parte dell'interessato risulta frequentemente distorta, frammentata in sensazioni parziali, spesso dissociate tra loro e dal ricordo dell'avvenimento, con una percezione del tempo rallentata o a volte accelerata, con vari gradi di amnesia per tutto o parte dell'avvenimento.

Chi soffre di Dpts tende poi a riattualizzare il trauma subito in diversi modi: attraverso sogni ricorrenti, ricordi ossessivi e imperativi, flash backs, o ipereattività in occasione di anniversari o in vicinanza di luoghi che gli ricordino il trauma. Ciò interferisce profondamente con l'attività quotidiana, interrompendo la continuità dell'esperienza di vita dei pazienti. Analogamente, i sintomi di evitamento si manifestano con la difficoltà a ricordare tutto o in parte componenti importanti dell'esperienza traumatica, perdita di interesse per attività normali e precedentemente svolte con partecipazione, sentimenti di distacco e di chiusura in se stessi, pessimismo circa il futuro, obnubilamento emotivo e sentimenti di anedonia e disinteresse, sentimenti depressivi, anestesia affettiva, riduzione di espressione emotiva, attivo evitamento di luoghi, circostanze e persone che richiamino il trauma in qualche modo.

Naturalmente il Dpts può scatenare o accentuare altri disturbi di tipo psichiatrico come gravi disturbi del sonno, depressione, panico, dissociazione, cefalea, confusione mentale, e innescare comportamenti patologici, tra cui spiccano quelli autolesionistici, come pure provocare disturbi organici di tipo gastrointestinale, neuromotorio e cardiorespiratorio, abuso di alcolici o di sostanze stupefacenti. I sintomi possono comparire immediatamente dopo l'evento traumatico, ma anche a distanza di molti mesi e in una certa percentuale di casi persistono negli anni, potendo durare anche per decenni, come nei reduci di guerra o nei sopravvissuti alla Shoah.

I sintomi permanenti possono riacutizzarsi in occasione di altri avvenimenti significativi anche non strettamente traumatici. Quando questo non succede, i sintomi presenti possono avere carattere transitorio, e seguire immediatamente gli eventi (reazione acuta da stress), o protratto (disturbo posttraumatico da stress), e influenzare più o meno intensamente il funzionamento psicosociale dell'individuo. Anche l'essere esposti in via continuata a traumi, soprattutto nell'infanzia, può essere causa di disturbi psichiatrici, in particolare disturbi di personalità. Solitamente, tanto prima interviene il disturbo dopo il trauma, tanto prima la sintomatologia si risolve, ma si conoscono forme manifestatesi e protrattesi per diversi anni dopo l'incidente. Per l'instaurarsi del Dpts sono poi influenti non solo il tipo di evento, ma anche le modalità con cui è intervenuto e il significato specifico che ha potuto essergli attribuito dal soggetto. Diventano così importanti il carattere improvviso e inaspettato dell'evento, il suo valore universale catastrofico, la rapidità e la condensazione temporale, il vissuto di impotenza condiviso con altri, la stretta associazione con gravi sconvolgimenti della percezione, insieme a fattori costituzionali, psicologici, sociali. In particolare, sembra che i traumi emozionali siano in grado di modificare profondamente le normali reazioni ormonali e neurotrasmettitoriali allo stress, e che le esposizioni successive ai traumi aumentino la vulnerabilità allo stress, suggerendo che il Dpts possa essere una reazione condizionata e appresa. D'altronde, il supporto sociale e familiare, relazionale e affettivo sembra ridurre il rischio di sviluppare il disturbo, come verificato nei veterani della guerra del Vietnam.

I principi guida per il trattamento del Dpts sono stati rielaborati nel corso degli ultimi anni, anche grazie alla pratica di azioni di soccorso e di terapia su larga scala che hanno avuto luogo su estese popolazioni, vittime di disastri. Fino a pochissimo tempo fa, gli interventi più noti e praticati erano la psicofarmacoterapia e gli interventi psicologici precoci, tra i quali il più noto è probabilmente il debriefing - una tecnica psicoterapeutica consistente spesso in pochissime sedute, se non di un'unica seduta - con l'obiettivo razionale di contrastare immediatamente, con decisi suggerimenti cognitivi, l'insorgenza di associazioni e condizionamenti ideativi dannosi. Più recentemente le linee guida Nice (National Institute for Clinical Excellence) negano l'efficacia nella pratica di questi interventi una tantum, sottolineando anzi l'evidenza di qualche rischio, e ridimensionano molto l'utilità nella pratica della psicofarmacoterapia, precedentemente molto articolata, con il suggerimento di differenziati trattamenti per i singoli disturbi. Si distinguono gli interventi che sono necessari nei momenti immediatamente successivi al trauma da quelli utili nelle settimane e nei mesi seguenti. All'inizio è data molta importanza all'atteggiamento del medico o di chi si occupa del traumatizzato, che dovrebbe essere empatico, tranquillo e in grado di trasmettere fiducia e speranza mentre fornisce il maggior numero di informazioni e di dati sull'incidente e su quanto avvenuto, allo scopo di aiutare a ordinare e razionalizzare l'insieme di sentimenti che creano confusione e disorientamento emotivo: si è constatato, ad esempio, che il sollievo per essere sopravvissuti cede rapidamente al timore indistinto di perdere la ragione e impazzire o a sentimenti di vergogna o di colpa. Si pone poi l'accento sull'utilità di un approccio rieducativo, fondato sulla disponibilità a rispettare i tempi necessari al singolo per rielaborare l'esperienza traumatica con le proprie risorse razionali e cognitive, a recuperare schemi di comportamento con cui in precedenza ha affrontato situazioni di crisi, accompagnata dall'illustrazione di come comunemente si reagisce a una situazione simile, a scoraggiare il ricorso a risposte inadeguate come l'abuso di sostanze come alcol o altre droghe. Molta parsimonia è raccomandata nella somministrazione di farmaci ansiolitici, fino a un decennio fa molto usati, per il rischio elevato che questi farmaci hanno di indurre dipendenza psichica e fisica. In ogni modo, anche in questo disturbo, pur nella sostanziale confusione circa i meccanismi neurobiologici sottesi alle varie manifestazioni sintomatologiche, si propongono terapie con antidepressivi serotoninergici, ma anche di altre categorie come i betabloccanti e a volte, ma molto di rado, i neurolettici. Nel prosieguo dell'evoluzione psicologica del paziente, l'approccio rieducativo attribuisce crescente importanza alla narrazione, che dovrebbe essere controllata e aiutare a riportare sotto un controllo razionale la memorizzazione dell'esperienza vissuta, piuttosto che continuare a essere semplicemente una manifestazione liberatoria e catartica. L'utilità di una psicoterapia strutturata è tuttora controversa, ma sembra scontato, soprattutto nella cultura inglese, che il prerequisito per la riuscita di qualsiasi trattamento sia un buon grado di accoglienza psicologica, non disgiunta da un buon grado di sagacia psicodinamica. Le possibilità di prevedere l'evoluzione del trauma acuto a distanza di tempo non sono considerate molto significative, e di conseguenza il ricorso a cure specialistiche non è consigliato come provvedimento standard, ma da valutare sulla base di sintomi particolarmente rilevanti. Si considera che solo dopo sei-otto mesi di sintomatologia che incida sulla funzionalità quotidiana del paziente si possa dire che il Dpts si sia stabilizzato. Importanti scadenze medico-legali connesse al trauma sono portatrici di complicanze anche cliniche, e in modo poco prevedibile si associano a cronicizzazione e resistenza alla terapia. La disponibilità di efficaci strumenti di supporto sociale è particolarmente importante e si considera essenziale nella prevenzione di complicanze e cronicizzazione del disturbo. In un certo senso, il Dpts può essere considerato quasi il prototipo dello sviluppo del ruolo sociale della disciplina psichiatrica, che appare oggi un po' meno correlata alla schizofrenia come quadro psicopatologico principe, e più collegata all'influenza di agenti esterni; esso costituisce il quadro esemplare del paradigma biopsicosociale, inteso come crocevia dei vari assi di vulnerabilità costituzionale, ambientale e biografica di fronte all'irrompere di uno stimolo estremo, di cui si occupa una disciplina di confine fra biologico e psicologico, fra mondo interno e realtà esterna, fra comprensibilità e fatalità, fra resistenza e soccombenza agli eventi, fra adattamento e sconfitta, fra trauma e apprendimento, fra naturale e storico. La sua grande attualità sembra destinata a divenire incalzante, con lo svilupparsi della cultura del trauma collettivo della guerra terroristica, nei paesi sottosviluppati e più in generale nelle situazioni di gravi conflitti che coinvolgono intere popolazioni inermi, condizionando il destino di intere generazioni di giovani e giovanissimi. Per questo, non stupisce che al seguito degli importanti investimenti nella ricerca in questa direzione molti ricercatori siano ormai impegnati in programmi sempre più definiti sul Dpts, delineando il profilo di una disciplina emergente con il nome di «psicologia delle emergenze e delle catastrofi», che ambisce a porsi come una vera e propria disciplina specialistica, con precisi collegamenti all'azione preventiva e terapeutica delle organizzazioni internazionali di soccorso nei teatri di disastri bellici e naturali. Parallelamente, si stanno articolando i potenziali utilizzatori delle tecniche e delle conoscenze prodotte sul Dpts, come dimostrato dagli studi sugli effetti traumatici sui soccorritori delle vittime, ma anche sui torturatori e sui testimoni. D'altro canto ci sono voci (Summerfield, 2001) che suggeriscono come gli stessi concetti di trauma e di disturbo posttraumatico, nell'aderire a un semplicistico criterio medico-terapeutico occidentale, alimentino la tensione tra opposte visioni etico-sociali del mondo, costituendosi come la forma culturale dell'aggressione imperialistica odierna, perpetrata ai danni delle popolazioni del Terzo mondo. In questo senso, la terapia e la guarigione non sono un processo di adattamento individuale, ma sarebbero indistinguibili dal generale processo di reintegrazione e rinormalizzazione della vita quotidiana delle popolazioni interessate, secondo i canoni della cultura occidentale che si preoccuperebbe di curare i mali che essa stessa ha provocato.

La discussione sull'opportunità di sistematizzare il Dpts come quadro clinico riflette le profonde differenze con cui si guarda, non da oggi, alla potenziale utilità della psichiatria per affrontare, o anche solo capire, i fenomeni umani. Alcuni rifutano a questo disturbo un significato conoscitivo consistente, poiché vedono in esso un'ulteriore manifestazione del nominalismo nosografico con cui si moltiplicano tendenzialmente i disturbi, dal mobbing allo stalking al bum out al bossing al sexual arassment. Definire un fenomeno o un comportamento umano, nominandolo tecnicamente come un disturbo specifico, assolve alla funzione di farlo apparire meno oscuro e ignoto, affidando alla ricerca scientifica la funzione totemica di rappresentare la speranza di una soluzione definitiva. Alcuni sostengono così che, con il Dpts, siamo giunti al punto di rifiutare culturalmente la difficoltà e il rischio esistenziale che accompagna da sempre qualunque vicenda umana.

GIOVANNI NERI